La fine delle adozioni internazionali?



Le adozioni internazionali sono destinate a estinguersi? L’allarme viene lanciato dalle organizzazioni di genitori adottivi e dagli enti autorizzati, a fronte di un calo costante, registrato negli ultimi anni, dei decreti di idoneità rilasciati dai Tribunali per i minorenni alle coppie che vogliono adottare bambini stranieri. «Se continuerà questo trend - denuncia Marco Griffini, presidente dell’associazione Amici dei bambini - entro il 2020 non ci saranno più adozioni internazionali». Ma cosa sta succedendo nel mondo delle adozioni? Perché si è arrivati a un calo drastico dei decreti che sono, a tutti gli effetti, il via libera all’adozione internazionale?




PIÙ BAMBINI, MENO IDONEITÀ
Nei primi sei mesi del 2011, secondo i dati semestrali forniti dalla Commissione per le adozioni internazionali, sono state 1.641 le coppie italiane che hanno realizzato un’adozione, 223 in più dello stesso periodo del 2010 e 173 in più rispetto al 2009. La regione italiana che ha adottato di più è la Lombardia (302 coppie adottanti), seguita da Lazio (166), Toscana (158), Veneto (146), Puglia (114) e Campania (111). Ad adottare sono in maggioranza coppie non giovanissime. Nel primo semestre 2011 la fascia di età di maggior frequenza per mariti e mogli è quella dei 40-45 anni (rispettivamente il 36,6% e il 37%). Seguono le coppie con un’età compresa tra i 35 e i 39 anni, con il 33,8% delle mogli e il 28% dei mariti. Sotto i 30 anni risultano solo lo 0,5% dei mariti e l’1,4% delle mogli, mentre sopra i 45 anni si collocano il 28,3% dei mariti e il 15,3% delle mogli.
Queste coppie hanno adottato 2.052 bambini (con una media di 1,25 bambini a coppia), dato stabile rispetto al primo semestre 2010 (2.075 ingressi). Rispetto al 2010 sono entrati in Italia meno bambini dai Paesi europei (nel primo semestre                2010 erano il 48,3% del totale, nel primo semestre 2011 sono stati il 43,9%). L’America latina passa dal 22,3% al 25%, l’Asia dal 18,6% al 19,9%, l’Africa dal 10,8% all’11,2%. I primi Paesi di provenienza sono stati: Federazione russa (17,5%), Colombia (13,3%), Ucraina (8,5%), Etiopia (6,7%), Vietnam (6,5%), Brasile (6%), India (4,9%), Bielorussia (4,8%), Polonia (4,7%) e Cina (3,6%).
Se il numero di coppie che hanno adottato è in aumento e il numero di bambini arrivati in Italia è costante, diminuiscono i decreti di idoneità (il documento rilasciato dal Tribunale dei minori che attesta l’idoneità della coppia ad adottare). Se nel 2006 sono stati emessi 6.237 decreti, nel 2007 sono scesi a 5.635, nel 2008 a 5.045, nel 2009 a 4.377 e nel 2010 a 3.548 (ultimo dato disponibile).
«Il calo dei decreti di idoneità - spiega Ingrid Maccanti, presidente del Naaa, ente autorizzato di Torino - può sembrare in contraddizione con l’aumento delle coppie adottive e dei bambini adottati. In realtà non è così. Le coppie che hanno adottato nei primi sei mesi di quest’anno sono quelle che hanno ottenuto il decreto di idoneità due o tre anni fa. Gli effetti del calo drastico dei decreti quindi si inizieranno a vedere solo a partire dai prossimi anni».

CAMBIANO LE REGOLE
Se si osserva il mondo dell’adozione a livello internazionale, non si può non notare che, negli ultimi anni, ci sono stati grandi cambiamenti. Molti Paesi hanno cambiato le normative limitando i flussi dei bambini adottabili da coppie straniere. «Dare in adozione un proprio bambino - spiega Roberta Lombardi, giudice onorario del Tribunale dei minori di Roma - è sempre stato considerato un fatto negativo per un Paese, perché è una palese ammissione dell’incapacità di prendersi cura dei propri cittadini. È quindi ovvio che molte nazioni del Sud del mondo, un tempo favorevoli a offrire in adozione i bambini abbandonati o in precarie condizioni di salute, oggi, che hanno raggiunto un livello di sviluppo accettabile, tendono a creare per essi strutture adeguate in patria. Così si riduce notevolmente il flusso dei bambini disponibili, soprattutto quelli in tenera età».
È una storia che anche l’Italia ha vissuto, come ricordano i giudici onorari più anziani. Dopo la seconda guerra mondiale e fino agli anni Sessanta, molti bambini italiani venivano dati in adozione in Germania, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti. Il benessere derivato dal boom economico e un miglioramento delle strutture per l’infanzia hanno fatto sì che il nostro Paese decidesse di non dare più in adozione i bambini. «È lo stesso percorso che in questi ultimi anni ha seguito, per esempio, il Vietnam - aggiunge Ingrid Maccanti -. Fino al 2007-2008, era uno dei Paesi che dava in adozione più bambini. Poi, anche a fronte di alcuni scandali legati alla compravendita di minori, ha deciso di riformare il settore. La legge approvata nel 2010, che ha recepito la Convenzione dell’Aja sulle adozioni (cfr box p. 17), prevede che per un bambino abbandonato si cerchi innanzitutto una soluzione nella famiglia di origine (nonni, zii, parenti, ecc.), poi in una famiglia in adozione nazionale e, solo se non si è riusciti a trovare alternative, in adozione internazionale».
Questo fenomeno, che interessa molti altri Paesi, fa sì che vengano dati in adozione internazionale bambini più grandi (e quindi spesso con un vissuto difficile alle spalle) o con problemi di salute. Non è un caso che nel 2010 il 60% dei bambini arrivati in Italia avesse più di 6 anni. Quello dell’arrivo di bambini più grandi e con «bisogni speciali» (cioè con problemi di salute permanenti o reversibili) è un fenomeno che tocca tutti i Paesi che adottano, ma l’Italia forse è più interessata di altri. «Il perché non lo sappiamo - osserva Paola Crestani, presidente del Ciai, ente autorizzato di Milano -, ma è un dato di fatto che qui arrivino bambini con problemi maggiori. La vera questione però non è tanto la tipologia di bambini che arriva, ma se il nostro Paese è in grado di accoglierli». 

IL LUNGO ITER
Le coppie, prima di poter accogliere il bambino o i bambini, in base alla legge n. 184/1983 (modificata dalle leggi n. 476/1998 e n. 149/2001) devono compiere un iter complesso che vaglia le motivazioni e analizza la loro posizione socio-economica (cfr box p. 17). «L’iter previsto dalla legge - osserva Paola Crestani - è complesso e prevede, in primo luogo, l’intervento dei servizi sociali, poi del giudice onorario e, infine, degli enti autorizzati. Molte coppie di fronte alla lunghezza dell’iter si scoraggiano e abbandonano. Ma, a mio parere, è giusto che più soggetti intervengano. Questo iter è necessario e sufficiente a preparare le coppie? È difficile dirlo, dipende molto dalle modalità con cui questi soggetti interagiscono». In questo senso, l’Italia è un Paese a macchia di leopardo, anche perché non esistono standard unici in tutta la Penisola. Alcuni servizi sociali territoriali (Asl) sono ben organizzati, lavorano con tempi certi e in modo efficace insieme alle coppie. Altri, più per carenza di fondi che per mancanza di volontà, hanno tempi più lunghi e con analisi della coppia meno approfondite. «In effetti - continua la Crestani -, noi come ente autorizzato leggiamo le relazioni dei servizi sociali che arrivano da tutta Italia e le differenze sono enormi. Ci sono Asl che fanno due colloqui, altre 10, altre 15. Alcuni sono molto approfonditi, altri molto meno».
Per ovviare alle carenze, le associazioni dei genitori e gli enti autorizzati organizzano corsi che preparano all’adozione e che accompagnano le coppie dopo l’adozione. «Gli enti, nel tempo, si sono strutturati con professionalità specifiche per poter aiutare le famiglie che si rivolgono a noi per consigli e aiuti - osserva Ingrid Maccanti -. Noi offriamo tutta la nostra consulenza, ma non possiamo arrivare dappertutto. Associazioni di genitori ed enti autorizzati non possono però sostituir­si completamente ai servizi sociali, che devono avere un contatto diretto con il territorio, le strutture educative (asili, scuole primarie e secondarie), le strutture sanitarie, ecc.».

STATO SENZA SOLDI
E questo infatti è il punto dolente. In un periodo di crisi economica, caratterizzato da robusti tagli allo Stato sociale, anche il settore delle adozioni ne soffre. Non solo per la carenza di fondi erogati alle Asl, ma anche per l’impossibilità di varare politiche organiche che richiedono sostanziosi stanziamenti. «Lo Stato dovrebbe fare molto di più - denuncia Anna Guerrieri, presidente nazionale di “Genitori si diventa”, associazione di volontariato costituita da una rete di famiglie adottive -. Dovrebbe investire maggiormente nei servizi sociali, nei Tribunali per i minorenni e nella scuola. Non è una questione meramente economica, ma culturale, perché non si tratta solo di assistere le famiglie, ma di far penetrare nella cultura della nostra società il concetto che l’adozione è un investimento sul futuro. I bambini adottati oggi saranno i cittadini di domani. E se l’adozione avrà un buon esito, ne trarrà giovamento l’intera società».
Purtroppo però questo concetto fatica ancora ad affermarsi nel nostro Paese. Gli stessi operatori scolastici spesso ignorano le specificità di un bambino adottato all’estero. Molti non sono coscienti del fatto che un bambino adottato è portatore di una storia differente e che questa storia va accolta in modo appropriato. Per esempio, quando arrivano in Italia bambini già grandi (10-11 anni), questi devono essere obbligatoriamente mandati a scuola non appena inizia l’anno scolastico. Tale inserimento per loro, che devono già fare i conti con l’ingresso in una famiglia nuova, si rivela uno choc. Alcuni di essi, poi, non sapendo scrivere e leggere nella nostra lingua, vengono iscritti in prima o in seconda elementare. E questo mina la loro autostima, già fortemente colpita dall’abbandono. «In Italia - continua Anna Guerrieri - non esistono leggi che riconoscano la specificità dell’adozione. Per intenderci: una normativa simile a quella approvata di recente a favore dei bambini dislessici o disgrafici. E quindi, siccome non è riconosciuto il disagio derivante dall’adozione, oggi per avere un insegnante di sostegno una famiglia adottiva deve far riconoscere un ritardo nel quoziente intellettivo del bambino. Ma si tratta di bambini che non hanno alcun ritardo, stanno “solo” affrontando il non facile inserimento in un ambiente nuovo e molto diverso da quello di origine».
Sono probabilmente queste difficoltà che mettono a dura prova le motivazioni dei potenziali genitori adottivi. «I costi dell’adozione vanno dai 17 ai 25mila euro e, in tempi di crisi economica, non tutti possono permettersi di spendere cifre così elevate - aggiunge Paola Crestani -, ma il calo dei decreti non si spiega solo con la crisi economica. Molte famiglie di fronte alle difficoltà (bambini grandi, spesso portatori di patologie, Stato assente, servizi sanitari costosi, ecc.) si scoraggiano e decidono di non adottare. Sono circa il 30% le coppie che abbandonano l’iter adottivo, alcune perché nel frattempo è intervenuta una gravidanza, altre perché hanno portato a termine un’adozione nazionale, altre infine perché non se la sentivano più di proseguire il percorso».
A ciò si aggiunge anche una maggiore severità nella selezione da parte dei servizi sociali e dei Tribunali dei minorenni. «Rispetto a una quindicina di anni fa - osserva Roberta Lombardi - sia i giudici onorari sia gli operatori sociali sono più consci delle difficoltà dell’iter adottivo e quindi sono diventati più severi nel giudicare. Questo ha portato nel tempo a un aumento delle “non-idoneità”».
Le adozioni internazionali sono quindi destinate a scomparire? «Se non ci fossero più bambini in adozione - conclude Paola Crestani - saremmo tutti felicissimi, perché significherebbe che i piccoli crescono nelle loro famiglie, nei loro Paesi, a contatto con la loro cultura. Purtroppo questa condizione non è ancora realizzabile. Quindi dobbiamo lavorare al meglio affinché i bambini, anche se più grandi rispetto al passato e con problemi di salute,  vengano accolti in famiglie motivate e, soprattutto, consapevoli delle difficoltà che dovranno affrontare nel corso degli anni».


Fonte : http://www.popoli.info

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